30 gennaio 2010

OGNI UOMO È UNA GOCCIA



3 settembre 2000. Dalle finestre della Sede internazionale dell’Unione Apostolica del Clero, in via Alberico II (Roma), nel primo pomeriggio, si vedevano le ultime gocce di pioggia cadere e ristagnare in una pozzanghera al lato della strada.


Ogni uomo
in questa società
è una goccia di pioggia da lassù
in uno stagno d’acqua provvisorio:
non vedi che l’impatto ed un rimbalzo
l’espandersi d’alcuni cerchi d’onda
intersecati da cerchi d’altre gocce
e lo sparire
di tutte
in un’opaca identità comune...
ma al primo raggio essa diviene specchio
e nostalgia
d’un cielo
appena abbandonato...

il pendolo

Noi oscilliamo sempre tra la capacità di promettere e l’incapacità di mantenere.

28 gennaio 2010

il raffreddore

Pensando a quanto tu soffra i raffreddori
e vedendo il raffreddore potente che hai preso,
puoi immaginare quanto ti sono vicino
e quanto ti devo stare lontano!

27 gennaio 2010

la libertà

Dio è aurora e tramonto di ogni uomo ma lascia a ciascuno la libertà di costruirsi il resto del giorno.

26 gennaio 2010

Il bene e il male

Il bene è così poco messo in luce da sembrare che non esista… il male viene così spontaneamente alla luce, da sembrare che domini…Alla fine dei tempi, Dio dimostrerà il contrario…

23 gennaio 2010

LA CORNACCHIA



Passavo ieri sopra il Ponte Amedeo di Savoia a Roma ...... e una cornacchia.......


Due file di lampioni arrugginiti
stanno ai lati del ponte sopra il Tevere
ricurvi in alto con il faro appeso
quasi a fotografare ogni passante…

Una cornacchia stoica vi si posa
e guarda con un occhio e poi con l’altro
la furia d’automezzi e delle moto
sfrenarsi urlando al cambio dei semafori….

La osservo… se n’accorge e sembra dirmi
muovendo il capo come per dissenso:
Le nubi e l’acqua se ne vanno lente…
ma gli uomini…che frenesia! Per niente!”…






Untitled from gio on Vimeo.


TRAMONTO SUL LAGO

Roma, 18,12.2006. In un momento di quiete, prima di ritornare nel Veneto per il Natale, mentre faceva un freddo “cane”, mi son chiuso in stanza per scrivere in fretta un ricordo estemporaneo di quando percorsi con Piergiorgio e Maria Luisa Scarin e Maria Rosa Duchi la strada militare del Costone sinistro dei Monti che da Rovereto va al Santuario mariano del Monte Corona. Da dove si vedeva il Garda.



Le nubi al tramonto
sembravano volti
di amici scomparsi
intenti a cercarci
con sguardo d’amore;

sembravano sogni
rimasti sospesi
sull’acqua per anni
e ormai ubriachi
di sole e di vento;

sembravano l’“io”
che, spenti i suoi sogni,
ancora divaga
in mete grandiose
e in estri di fuoco

non senza vedere
lo sfondo oscurarsi
del suo orizzonte
per dirsi confuso
che presto è già notte…

22 gennaio 2010

l'io

L’io, l’io, l’io che supera se stesso e supera gli altri ecco lo spirito di potenza. A seguirlo davvero o sei pazzo o ci diventi… Senz’altro fai “impazzire” gli altri di sofferenze indicibili.

21 gennaio 2010

18 gennaio 2010

l'età dei perchè

C’è un’età in cui i figli pongono continuamente domande; è l’età dei “perché”!
Essa ritorna ad ondate lungo tutta la vita e si acuisce nei momenti di prova.

10 gennaio 2010

SETTANTA PRIMAVERE GIÀ SUONATE

 Grisignano di Zocco, 30.12.2009. Festa dei coscritti 1938. È naturale che gli amici (e più ancora le amiche), dato che ormai conoscono “il vizio di mettere qualche idea in versi” mi chiedano alcune rime… sulla nostra età. Settant’anni compiuti… Nonni per forza…
Unanimemente gli amici vorrebbero rime “esaltative” della loro prestanza e bellezza … anche se “tenute su con più di qualche amenicolo artificiale”…. Pur di “far bella figura” non si ha paura di spendere… anche se, dopo tutto, si “spompa” notevolmente la pensione… Questi pochi versi, dal tono un tantino bonario, …portano in un’altra “direzione”…

Settanta primavere già suonate
senza accettare come in tempi andati
capelli bianchi, testa calva e rughe
scoliosi e reumatismi stagionali
e passi incerti e vuoti di memoria
ma coltivando voglie d’apparire
d’essere arzilli come un quarantenne
e colti e aperti al mondo ed influenti
studiando per un titolo accademico
desiderato tanto in gioventù…

Settanta primavere per la donna
ad ogni costo giovane e carina
con vibratori e cibi degrassanti
ginnastiche segrete ed in palestra
footing all’alba con tute supersoniche
rabbie allo specchio se la ciccia resta
colore alle unghie, agli occhi ed ai capelli
cosmetici e pomate e messe in piega
formosità in altorilievo e sguardi
più che indiscreti dei più maliziosi…

Settanta primavere già suonate:
che se la donna tanto cura il corpo
oggi non è da meno suo marito…
Vi aggiunge in più la voglia degli amici
le partitone a carte in osteria
le grandi discussioni e un buon bicchiere
la corsa in bicicletta, il sole al mare…
Puoi immaginare se ambedue non tremano
quando i bei sogni sbavano e non resta
che il senso d’un passato senza storia…

No, no per carità non ne parlare
affiora già dall’alba come un pungolo
la nuda crudeltà d’un cimitero …
ci fa paura anche un mal di reni
un nodulo alle ascelle, al ventre, ai seni;
per carità pensiamo ai nipotini
atletici, geniali, birichini
turgidi boccioli di tenerezza
che gridano la festa della vita
e annebbiano le angosce d’un domani…

Saggio viandante più che settantenne
la corsa è breve anche per chi la inizia!
Tu già intravedi giorni oscuri e muti
in cui la tua prestanza si discioglie
e i primi amici come piume al vento
arrivano al traguardo tanto inviso …
Che senso ha mai un fiore sulla tomba
se non riscopri l’unica speranza
che ridisegni tutto il tuo cammino
per una primavera che non muore ?


CARO GESÙ BAMBINO



Roma, Epifania 2010. Davvero il fastidio cresce con l’andare degli anni… visto che la commercializzazione di tutto, compreso Dio e le sue feste, galoppa senza ritegno. La gente mischia sacro e profano con un perbenismo raro che dopo tutto indica ignoranza della storia oltre che vuoto di esperienza religiosa. Ma tanto vale “fare osservazioni” quando la permalosità – malattia dei colti ma non solo - seppellisce anche il buon senso e la verità.

Caro Gesù Bambino
che metamorfosi t’ha fatto fare
quest’Occidente?
Il consumismo t’ha cambiato il volto
e gli anni e pure il nome:
babbo Natale sei con barba bianca
e incappucciato… per la neve e il freddo.

Non basta; t’ha cambiato il volto, il nome
e gli anni e pure il sesso:
nonna Befana sei, infazzolettata
in volo con la scopa in ogni casa;
E l’uno e l’altra … solo per portare
regali chiesti con i messaggini
dai furbi nipotini!

Caro Gesù, ti vanno adulterando
pensando ad altro; e in più, senza pietà...
Spazzali via come pula al vento
la strega e il vecchio e quanti li promuovono
come postini
d’una accondiscendente,
distorta simpatia verso i bambini!

09 gennaio 2010

E’ UN NERO ANDARIVIENI DI FORMICHE


Roma, 21. 11. 2007. Ho ricordato uno sciame di formiche…visto durante l’estate, in una strada di Montegalda. Ne ho rivissuto l’esperienza fatta, tirando conclusioni che tanti avrebbero potuto pensare… anche senza esprimerle.



È un nero andarivieni di formiche
che incrocio sulla strada di campagna
sferzate
dal sole e incolonnate
in una lunga scia
dai luoghi del bottino fino al nido

ed è un parlarsi svelto, orientatore,
col cibo alle mandibole
un erpicarsi sulle asperità del suolo
senza mollare;
un arrivare turgido di gioia
entrando in tana.

Ma è anche un roteare di guerriere
quasi demente
quando curiosamente
con un bastone invado il loro impero,
il covo delle uova e il trono occulto
della regina.

Con esse sbuca sù l’intero sciame
che si sparpaglia
come a tenaglia
brandendo ogni formica la sua larva
contro il profanatore
di tanta intimità.

In quel momento
sento d’avere infranto
la loro pace intensa e laboriosa
e per un niente!
E penso ai folli dell’umanità
che gustano la guerra e il suo spettacolo
e scovano e tormentano e sbrandellano
anche gli inermi
peggio che se formiche…

TENTAZIONE


Roma, 17.05.2007. In piena estate, sotto un vento minaccioso osservavo le foglie più deboli ma ancora verdi, strappate via dai platani e finire nell’acqua o sulla strada. Vedevo le auto passarci sopra e schiacciarle o soffiarle ai margini della strada tra il fango. Ovvio l’accostamento espresso sopra.

Quando la tentazione è più violenta
la tua coscienza si intontisce e trema
come la foglia al vento
d’un uragano;
strappata via con forza
dai suoi valori che la alimentavano
senza più un senso, va
dove, non sa

e soffre la vertigine del volo
ed il tumulto di quel suo cadere
nei bassifondi umani
per lì marcire…

BRUCIAVANO I RIFIUTI




Grisignano di Zocco, 10 settembre 2007 (in occasione della Fiera del Socco).
I Comuni del Nord Italia sono molto esigenti nella separazione, raccolta, eliminazione dei rifiuti. Se fosse così dovunque! E i rifiuti si eliminassero in casa propria. Di fronte alla trasgressività di tanti su questo e su altri campi molto più importanti e alla permissività assassina delle leggi italiane su valori come la vita, vedendo una famiglia intenta a far festa all’aperto attorno al fuoco, bruciando di tutto… ho “scarabocchiato” questi versi più intento all’idea da esprimere che alla forma…


Bruciavano i rifiuti umidi o secchi
nel caminetto all’angolo di casa
tra scoppietî e nugoli di fumo
sapori di grigliata e di buon vino…

E chi bruciava e chi veniva cotto
irridendo al divieto del Comune;
e ai cento ecologisti senza gusto
che annegano la storia nell’angoscia

sembravano ripetere ch’è stolto
chi sdegna che un “rifiuto” sia bruciato
e proibisce ciò che non inquina
ma ammazza i feti come una bovina.

SENSAZIONI D'UN GIORNO



Roma, sul Gianicolo. 2006.03.21. Guardando il tappeto di margherite in fiore sul prato verde che copre il tetto del Centro internazionale di Animazione Missionaria sul Gianicolo, in fronte alla stupenda cupola di S. Pietro e ai palazzi vaticani, si possono provare tanti sentimenti sia al mattino che dopo il tramonto. Ne ho espresso due.

Si posa la malinconia d’un giorno
appena nato
sopra un tappeto morbido
di margherite
timidamente uscite
dal guscio della notte
al sole e al vento della primavera

e nella sera
la fantasia
d’un giorno già passato
si stempera nel buio dell’azzurro
e si riaccende
in un tappeto vivido di stelle
enigma e incanto dell’infinità
del cuore
che avverte anche nel fiore
un suo perché
e una sua festa.

AL FRATELLO ANTONIO dieci anni dopo...


Padova. 2006.02.18. A dieci anni dalla morte, rivivendo momenti forti di famiglia, tuo fratello, don Giuseppe.
Antonio, nono fratello Magrin su quindici, consacrato come altri sette figli, muore di tumore osseo il 12 maggio 1996, a 51 anni. Faceva l’infermiere all’Ospedale di Vicenza, definendosi “tecnico delle pulizie”. Non aveva titoli di studio ma una polivalenza di attitudini pratiche e molta contemplatività. La sua passione per gli impianti elettrici e idraulici, la sua sensibilità per il “grandioso” e l“ascensionale” (cielo, montagne, acqua, luce, volo) lo affinarono nel cogliere anche la “grandiosità” del Trascendente; perfino la grandiosità del dolore, come “forza e dinamica redentiva”, come “centrale elettrica dello spirito”.



Fratello nostro Antonio
sono dieci anni ormai e non ci sembra
da quando ti guardammo lacrimando
immobile
in quella bara stretta,
gli occhi chiusi per sempre
il tuo sorriso spento
ed il ginocchio a stento
piegato quasi ti dolesse ancora.

Per noi tu resti sempre l’altro Antonio
che dilatava
le grandi braccia e il cuore
contemplando le aurore
ed i tramonti
sulle pianure venete
mirando le sue stelle così vive
così struggenti nelle notti estive;
l’Antonio puro che s’affascinava
per le bufere, i lampi e i tuoni e il vento
radente a pettine
sugli alberi e sui prati,
per le montagne e i loro picchi altissimi
per i ghiacciai e i boschi e gli strapiombi
e i rombi
delle cascate
e il loro schiumeggiare
turgido, onnipossente più del mare.

Più non risuona il passo tuo marziale
lungo i sentieri delle Dolomiti
fino ai bastioni della prima guerra;
né la tua voce quando ci narravi
le dighe e le centrali
con i piloni a croce e i fili ad arco
sopra le colline
in fuga quasi verso la pianura
ed i canali per l’irrigazione
le pompe ed i motori
e il loro canto
e i tuoi lavori
dove spendevi le ore tue più belle
e ad ogni tua conquista rigioivi
con l’irrompente ingenuità d’un bimbo.

Ancora ci ritorna
lo sguardo tuo incantato
nell’inseguire il volo
degli aviogetti con le loro scie
quasi fili di lana nell’azzurro
bianchi, incrociati
con quei significati che tu davi
fragili e grandiosi.
Tu reintrecciavi in essi i tuoi ricordi
ed i tuoi sogni
il viaggio in Africa,
per ridonare luce ed acqua limpida
anche laggiù
ed il pellegrinaggio in Palestina,
terra di morte e di resurrezione
e d’ascensioni verso quell’Eterno
Crocifisso che tutto trasfigura,
anche il dolore.

Ed Egli, il Crocifisso per amore,
negli anni più maturi
ti volle suo per sempre e totalmente
fino al calvario d’una malattia
senza speranze.
Tremavano i tuoi occhi di stupore
al suo e al tuo patire
ma t’affidavi a Lui,
a Lui, Parola viva che non muta
e nel tuo andare pieno di travagli
stringevi due stampelle ed un sorriso
che aveva un non so che di paradiso.
Nella fugacità dei giorni, tutto
cambiava volto ed una nostalgia
diversa t’assaliva;
gradivi visitare il camposanto
dove papà già stava,
e i suoi silenzi
e là ascoltavi a lungo, rileggendo
i nomi degli “amici di domani”.

Tu ripetevi: “Mamma,
non domandarmi perché io stia partendo;
ritornerò, ritornerò volando
attorno a questa casa
come gli uccelli, come gli aviogetti
per rinarrarti quanto è vero il sogno
che feci di papà
quando le notti dopo la sua morte
immerso nell’azzurro mi diceva:
Leggi quel salmo, leggi:
Tutto è una meraviglia agli occhi nostri”!
Antonio, piccolo, virente fiore,
- così è il tuo nome -
che amavi riscrutare i cieli e i monti
con l’inseparabile cannocchiale
cercare l’acqua con le verghe a forcipe
e prevedere il tempo e le stagioni,
ora che stai lassù
e vedi l’universo e le sue ere
in un tutt’uno
con la Sorgente che non ha mai fine,
noi ti sentiamo
in volo
fino alle nostre case
leggero quanto il soffio dello Spirito
e là indugiare
per farci emergere quell’io profondo
che tanto inquieta e sfugge
ed impregnare l’attimo presente
della divina sua lungimiranza.

TSUNAMI


2006.02.17. Ho voluto ricordare il tsunami, non tanto descrivendone il fenomeno nella sua eccezionalità, ma immedesimandomi in uno dei “turisti del sesso” uccisi dall’ondata, che hanno investito le vacanze natalizie ben diversamente che nella intimità di Cristo bambino. E si trova improvvisamente nell’aldilà! E guarda ciò che resta delle sue attese... umane.... della sua corporeità stessa.

Su questa spiaggia della terra Thaj
intima, tropicale,
quasi irreale
tutta sogno e barbagli
d’attese, di silenzi
e di complicità,

all’improvviso
in faccia a me
non c’è
che un’onda immensa, altissima
rifranta
che schianta
non c’è che l’urlo della selva e il mare
che mi risucchia giù come fuscello.

Istanti eterni, lucidi
tra brividi impotenti …
e più non sono!

Da altrove,
l’altrove irreversibile cui giungo,
rivedo il corpo mio inerte, nudo,
fluttuare con cent’altri e sanguinare
tra sfasci d’ogni cosa…
e sette squali in corsa per la festa.

FRINGUELLO MIO




Nel Bellunese 25/01/2006. Guardando un fringuello infreddolito, in mezzo alla neve, che stentava a trovare cibo e si ostinava ad aprire bacche durissime, pensavo a migliaia di persone, ragazzini di strada in particolare, che conducono una vita di sussistenza molto simile. Durissima.

Quanto sei piccolo, fringuello mio
che vieni saltellando sulla neve
e quanto impercettibile il fruscio
sul gelido muretto della Pieve.

Sei solo e cerchi bacche fra le spine
dall’alba, in ogni siepe, fino a sera;
le sbucci tra le fragili zampine
sognando che sia mai una primavera.

È questo il primo inverno che tu passi
soffrendo un’adolescenza intontita
fra rami nudi, cieli plumbei e sassi
senza un canto che inebri la tua vita.

Coi mesi imparerai che ogni stagione
per quanto tu la veda brutta o bella
ha un suo profumo ed una sua illusione
le tenebre e la luce d’una stella.

Ma non dimenticare, fringuellino,
che un mondo freddo e senza compassione
potrebbe trasformarsi in un giardino
se pure tu ti fai condivisione.

MANICHINI


Roma, 2006.01.04. Nell’affollata via del Corso a Roma, che spesso percorro in bicicletta da Piazza di Spagna fino all’Università Urbaniana (e in tante altre vie simili, non è difficile immaginarlo) ho osservato botteghe d’alta (e bassa) moda, con manichini e vestiari di tutti i tipi. E gente, (specialmente donne e ragazze, ma non solo) a guardarli incantata, quasi immedesimandosi in essi.

“Chi siete, manichini,
che fate
con quel sorriso a smorfia tutto il giorno
o senza testa
nelle boutiques del centro in Via del Corso”?

“Noi siamo l’anteprima stilizzata
di coloro che vivono di moda
d’antiche e sempre nuove seduzioni
e comprano illusioni”…

POVERO GIRASOLE


Roma, 13 dicembre 2005. Dopo aver guardato una distesa di girasole lungo la ferrovia Arezzo-Chianciano. immedesimandomi in uno dei girasole. È la storia di ogni vita che l’uomo ha la sfortuna-fortuna di poter rileggere, interpretare.

Povero girasole
anche per te passata è la stagione
dei grandi sogni.

La tua corolla gialla è rinsecchita
E più non gira ardita
faccia a faccia col sole tutto il giorno
tra palpiti di vento
e silenzi di fuoco
e nubi ingelosite
per tanta somiglianza e sintonia.

Più non t’innalzi ormai sugli altri erbaggi
come facevi
quasi invaghito d’essere qualcuno
tra mille,
in sincronia con l’Alto
in un podere aprico
d’antica villa
che tutti incuriosiva.

Ora la testa gravida di semi
sta china
e guardi al suolo
dov’essi ad uno ad uno
staccandosi cadranno
e sprofondandosi rispunteranno
dimentichi di te
o disperdendosi finiranno cibo
di quanti attendono
la tua dissoluzione…

E pensi e pensi
perché la vita nasca da un morire…

IL VECCHIO



Montegalda, 9.5.2005. Ho pensato alla vita contadina delle nostre zone. Una scena ricorrente nei “ tempi andati”, il sedersi del capofamiglia fuori della porta di casa dopo cena, guardandole “cose” con un senso di soddisfatta contemplazione e… sorseggiando a lungo, più d’un bicchiere di “ vino fatto in casa”, non trattato, prima di finire a letto. La poesia si ispira a un fatto accaduto, che ho rivissuto in maniera tutta mia.



Stava seduto il vecchio dopo cena
sulla panchina fuori della porta
con il cappello a tese larghe in testa
due baffi irsuti ed una barba incolta
la pipa nel taschino
ed un boccale
pieno di vino.
Indifferente alla calura estiva
guardava le sue bestie
tornare in fila lente e abbeverarsi
al fontanile
andando ognuna sazia alla sua posta.

Erano ottanta gli anni
e quella sera
aveva sete, tanta sete il vecchio
di quel suo vino rosso
appena attinto dalla botte grande
e gli ammiccava come a una donzella
pensando ai tempi della gioventù;
ma d’improvviso gli tremò la spalla
e un piede,
preso alla gola e al petto da una stretta
e gli sfuggì di mano quel boccale
come già i sogni dalla sua memoria.

Scosse la testa e riguardò smarrito
le nubi del tramonto
i suoi fienili colmi ed il bestiame
il cane alla catena
e l’acqua al fosso per l’irrigazione
i prati e i campi fino alla collina
i suoi ricordi e la famiglia intera
e il tutto che s’obnubilava
e si rammaricò
degli anni
e di quel nettare
finito tra la polvere dell’aia.

Con voce roca che s’affievoliva
gridò alla sposa ed invocava mamma,
tendendo la sua mano contadina
come quand’era bimbo ai primi passi
la sua manina,
ma solo il cielo
di lui s’accorse
e il canarino dalla gabbia in fronte
che smise di cantare.

Il vecchio ripiegando lentamente
il capo e su se stesso
ormai assente come se in ascolto
d’altre felicità,
cullato dalla sera, là si spense.

IL FRATE CAPPUCCINO




Roma, 2001,07.11. L’episodio di S. Leopoldo Mandic, cappuccino, piccolo, inerme, fermato e preso in giro da dei ragazzi sul ponte vicino all’Orto Botanico di Padova mentre andava alla Basilica di S. Antonio, ragazzi che lui lasciò “bloccati” là sul ponte fino al ritorno, come punizione, mi diede lo spunto per questa poesia.

Passarono due giovani
lungo la vecchia strada, in motorino.
Un frate cappuccino camminava
ai bordi, solo, riservato; forse
parlava col suo Dio.

Ai due non parve vero
sbandargli addosso a guizzo
strappandogli il cappuccio
dal saio ormai consunto
e sarcasticamente sganasciando
girare indietro per sputargli in testa
e scomparire…

Il frate li fissò
fulmineo
stringendo forte i nodi del cordone
che gli cingeva i fianchi
ma repentinamente chiuse gli occhi
come in ascolto d’uno da lontano
e riguardandoli pensosamente
mite sorrise…

ONDE D'UCCELLI


Roma, 1 maggio 2006. Mi trovavo in Viale Giulio Cesare. In attesa d’acquistare pezzi di ricambio della bicicletta dal Rivenditore Boncompagni, guardavo le schiere di storni che arrivavano a riposare sui platani alti e folti della capitale, con una festosità unica, seguendo gli impulsi e i ritmi della natura…non preoccupati certo di chi ci passava sotto o di chi li stava a contemplare.

Nel cielo mite della Capitale
onde d’uccelli invadono il tramonto,
volteggiando leggere, voluttuose
come sul palcoscenico
i veli in seta d’una danzatrice
e calano d’un balzo tra le chiome
degli alberi gridando l’uno all’altro
la storia e la felicità d’un giorno…

A poco a poco il chiacchierio si spegne
in un fruscio guardingo
sull’invadente, meccanicizzata
notturnità
dell’uomo
e al presentire l’alba
errompe in gare di canorità
dense d’intese.

Al primo sole
già partono a folate quelle schiere
frizzanti e fiere
d’un vento e d’ali che le spinge in alto
d’un cielo puro, libero dall’uomo
e dai suoi miti;
e tu le insegui con lo sguardo e danzi
danzi nei loro vortici la vita
nient’altro che la vita e il suo sapore…

TORMENTO OLTRE LA MORTE




2005.07.11. In un momento di relax, al posto del caffè di routine, nel mio Ufficio a Propaganda Fide, in Piazza di Spagna, mi sono venuti in mente i tanti morti con il corpo in dissoluzione; i primi uomini arrivati sulle colline di Roma, i milioni di altri passati anche sul terreno dove stavo io, il loro destino, la loro vita terrena e l’attuale loro vita.
L’uomo non cessa di essere sorpreso e ripreso da un “io” sotterraneo che riemerge come “interrogativo esistenziale” pensando ai quattro giorni che gli restano da vivere e al modo con cui ha vissuti i precedenti giorni. E pensa, poi, all’ineludibile morte e, come dicono alcuni “aggiornatissimi filosofi occidentali”, al nostro “totale azzeramento”; oppure, come dicono i cristiani (e non solo loro) a un suo… “oltre” con ciò che ne potrebbe conseguire .


Nell’ultimo giudizio dopo morte
saranno sui miei occhi
gli occhi di Dio
immobili, abissali
se pure affranti…

A quello sguardo crollerà afflosciato
il fragile castello del mio io
e non mi resterà che qualche scheggia
di bene cui non davo il suo valore…

Allora, brutalmente ammetterò
d’avere trascurato
il vero amore - quello d’un Papà
che m’attendeva ad ogni crocevia –
e griderò il bruciore
- non so per quanto -
d’aver sciupato giorni tanto intensi
o decisivi della vita mia.

08 gennaio 2010

LA MAGNOLIA DEL “SANTO”


2005.06.13. Una sera, uscendo dal chiostro della Magnolia a lato della Basilica del Santo dopo la chiusura della Basilica stessa, guardavo da là il cielo con nuvole ovattate, bianchissime ricamate dal tramonto, le campane che suonavano l’Ave, e le cupole, giù giù fino alla magnolia “antica” (dicono sia stata piantata nel 1810) …ed ho immaginato il resto.

Mentre suona l’ultima campana
della Basilica
e l’aria della sera s’oscurisce
maestosamente la magnolia al centro
del chiostro sta
quasi sospesa sul tappeto erboso
col suo mantello verde fino ai piedi
e fiori bianchi a calice
come in ascolto.

Le porte sono chiuse ai pellegrini
e tre frati girando
a capo chino, sgranano il Rosario
guardando a tratti in alto alla magnolia
e alle cupole e all’angelo
dell’ultimo pinnacolo
lassù...
da dove le preghiere dei devoti
salgono, oltre le stelle, al Paradiso.

“Di là non c’è mai sera né mai notte
- pregano assorti i frati –
né mai autunno o inverno
ma un’infinita, dolce primavera
dove a corona
i Santi con Maria
cantano al Figlio
e con il Figlio al Padre
l’inno della Sorgente!

Quaggiù si vaga come inariditi
come sazi e storditi
da mode di pensiero
prodighi e nudi non soltanto ai piedi
senza più il saio della povertà
e della verità.
Frenetici, si cerca in ogni dove
e ci si perde
nei mercati d’un futile presente.

Ma c’è chi bussa al tuo mistero, o Dio,
e al nostro chiostro,
e chiede in nome di Francesco e Antonio
la vigoria nascosta
della magnolia
e il suo profumo bianco
un po’ di quiete e un lembo di quel Cielo
che nel tramonto d’una civiltà
poco si vede”.

QUELLO SPUTO


Roma, 2005.07.12. Passando il ponte sul Tevere, di fronte a Castel S. Angelo, in Roma mi mi fermai a guardare l’acqua che scorreva con i suoi gorghi, portandosi via rifiuti ed altro.Guardando poi alla mole Adriana e alla Basilica di S. Pietro… pensavo al tempo che va. Sputando sulll’acqua –una sconvenienza, che mi ha suggerito di sostituire Tevere con canale- m’è venuto spontanea la coniugazione: perennità-precarietà, della persona umana.

Quello sputo schizzato
con spavalda idiozìa
dal ponte sul canale
non era
un rifiuto tra tanti
che oscillava in balìa
della corrente
ma una parte di me
che mestamente
se n’andava, per sempre.

FILOSOFO-PITTORE

Roma 06.07.05. Il pittore Dionisio Gardini mi donò il dipinto d’un arlecchino seduto, pensoso, con lo sguardo a terra. Mi disse: Quello sono io, sei tu: un pagliaccio che pensa, in un mondo esteriorizzato e frantumato che non vorrebbe lasciarti pensare.













Pittore del frammento
relativistico
esisti nel pianeta del tormento
che senti stretto come una prigione.

E il tuo cervello frulla
immagini virtuali
senza quell’ancestrale
impulso all’armonia
quasi che l’intimo
rifratto dallo spettro
non più solare
d’una ragione autonoma
si decomponga in sprazzi
paradossali
e si riquadri
in linee ed in colori surreali.

Filosofo-pittore,
tu vai smontando un uomo
che non è l’uomo,
te lo dipingi come un arlecchino
seduto e chino,
lo sguardo fisso
sullo sfondo d’un oggi dissacrato…
e, inappagato,
continui a riscavarne
l’identità;

e trema la tua mano
quando ti firmi all’angolo:
Pagliaccio sono
ma pagliaccio che pensa!

VISITA AD UNA MOSTRA DI PITTURA CONTEMPORANEA


2005.10.17. Dopo la pubblicazione di Frammenti di Luce, fui attaccato da un mio benevolo critico impregnato di immanentismo scientista, chiuso nel suo “ermetismo” “frutto del tormentato, frammentato, a volte incomprensibile pensare e sentire d’oggi”. Mi fu spontanea una vivace rilettura “poetica” dell’uomo d’oggi, dopo che avevo visto alcune “ben poco comprensibili” pitture-sculture nelle Piazze di Padova e perfino dentro l’Università. Pitture-sculture che (come tanta poesia) restano un enigma e riflettono la psiche non tanto di chi le ha fatte quanto della società occidentale che le ha maturate. . .
L’arte è per sé intuitività, immediatezza, sintesi di comunicazione. Dovrebbe parlare da sé d’una immanenza orientata al trascendente, d’una trascendenza scopribile a partire dall’immanente; non dovrebbe aver bisogno di troppa esegesi. Se no, ne è l’involuzione. Oggi l’uomo occidentale è l’involuzione di se stesso. Una solitudine in un mare di comunicazioni, dove i contatti non sono che scontri di “gusci” alla deriva….


Uomo del duemila,
tuffato in immanenze filosofiche
e in futuristiche
tecnologie informatiche
tu insisti a definirti libertà
pura che sa
e sottomette
e detta legge
indefinitamente
come se un appetito anche perverso,
fosse diritto umano;
così tu esalti la schizofrenia
magmatica
della ragione e della volontà
in una società di manichini
narcisisticamente
al centro di se stessi…

Tu, maschera d’un idolo
forgiato da una fantasia iperbolica
e trasbordato all’oggi
sull’onda illuministica,
sei la commedia irenica
d’una tragedia
costretta a sopravvivere
come orizzonte d’ogni desiderio…

Tu stesso ti sei fatto
pittore inquieto
degli infrarossi d’una società
ridotta a massa compiuterizzata
dove il tuo nome è un numero
che si singolarizza in stravaganze
di vesti, d’ornamenti, di tatuaggi
e il tuo cammino
un navigare incerto
tra oroscopi ed occulti magicismi
tra satanicità ed esoterismi
o un furbo arrampicarsi nel successo
o nel denaro
tra tante quotidianità appiatite
fino allo sbando.

E in scritte ermetiche da bassifondi
o in quadri di valore, indecifrabili
tu ti dipingi come distorsione
di forme e di colori
come corporeità
narcotizzata
da musiche e profumi
e droghe psichedeliche
per sensazioni estreme,
come lo sguardo vitreo
d’occhi rappresi
nell’insignificanza
d’un volto decomposto,
come baldanza desocializzata
caustica e impaurita
in una terra che non t’è più amica
e dentro un cielo senz’interiorità.

Rimossa
l’aspirazione cosmica d’un “cuore”
oltre il tuo io
e l’universo,
tu, scrutatore del transpersonale
e dell’inconscio
tutore d’una scientificità
disinibita
dall’atomo alle stelle, al cromosomo,
trasudi nel pennello la vertigine
di non capirti.