Svizzera e Colomba erano per noi
le mucche nostre
con cui capirci a volo
come nel gioco,
rossiccia l’una, bianca e grigia l’altra,
pronte al traino del carro e d’altri mezzi
e a correre dal babbo se intravisto
in lontananza, sulla strada grande,
pronte a donarci il latte e il vitellino
e a riscaldarci ad ogni freddo inverno
pur con l’andar degli anni…
Mai si voleva
pensare al giorno triste d’un addio!
S’era in autunno, un pomeriggio tepido,
a semina finita del frumento,
e le due stavano beatamente
a ruminare
quando uno sconosciuto
entrò nel semibuio con papà
tergiversando a lungo;
poi una stretta di mano
nervosamente,
le lacrime di mamma dalla porta
in fondo
e a Colomba la mite, la fedele
fu imposto di partire.
Babbo sembrava ancora dubitare;
le mise infine la cavezza bella
e nel cortile, la famiglia attorno,
le accarezzò le corna
e il collo,
e le narici
ed i capezzoli
come per dirle grazie
e chiederle perdono.
Le strinse il muso sotto il braccio destro
con gli occhi gonfi
come volesse aggiungere:
“Sì, Colomba, per i bambini nostri
per queste tante bocche da sfamare
solo per loro
ti debbo consegnare
a chi non ha bisogno del tuo latte
ma più del tuo lavoro”…
Lei lo guardava
come capisse ch’era giunto il giorno
di lasciarci per sempre;
poi gli leccò la mano
e il viso
ed abbassò la testa
con un muggito appena percettibile
quasi un singhiozzo a lungo trattenuto
d’affetto e di dolore.
Con la zampa anteriore
strisciò il terreno
e s’accasciò senza che il proprietario
nuovo o papà riuscissero a convincerla
d’alzarsi
e incamminarsi verso il suo destino.
E quando, dopo stenti, la Colomba
passò il cancello,
girava il capo inquieta
e rallentava
sbavando sulla lunga corda tesa
della cavezza.
Quindici giorni dopo, appena all’alba,
papà non resistette
al vuoto.
Prese la bicicletta
e andò a trovarla nella nuova casa
calda, pulita
dove Colomba stava
con altre sette mucche, riposando.
Bastò il suo nome ed essa
balzò muggendo,
come stesse chiedendo
una carezza ancora
o formulando tanti suoi perché.
Stettero insieme a lungo,
poi babbo strinse il fiocco della coda
e la lasciò;
né mai ci riferì gli ultimi sguardi
di quell’incontro
né le parole che si sono dette.
Ma quando ci sentiva pronunciare
il nome
di chi non c’era più nella sua stalla
scostandosi in un angolo, ammutiva…
3 commenti:
Questa poesia mi fa piangere di tenerezza. Bellissima. Verissima. Anche nella mia terra d'Abruzzo, anche oggi, anche per giovani come me che amano l'agricoltura e l'agroturismo. Francis
Io amo solo la città, la gente, i negozi. Comprerei tutti i vestiti del mondo. Amo il mio cagnolino. Non di più. Il resto, le vacche poi, sono romanticismi da vecchi. Mo' pure i preti sono romantici... Elenia, non dico da dove.
Bella, commovente poesia. Quanto è migliore il mondo contadino e l'immenso orizzonte della campagna. Ancora di più quello notturno con le stelle e senza le maledette luci artificiali dell'uomo. Bravo qest'uomo, questo papà. Lo invidio. Una fetta di terra l'ho pure io ma non tutta questa intesa con gli animali. Angelo C. - Schio
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